Andrea Bellini: Maurizio, intervistarti non è la cosa più facile al mondo..
Maurizio Cattelan: E allora non farlo. Potremmo andare a prendere un caffé.
AB: Si, magari più tardi. Dico che non è facile intervistarti perché tu in più occasioni hai dichiarato di non avere idee, e nemmeno teorie. Quindi mi chiedo perché mai qualcuno dovrebbe intervistarti.
MC: In effetti io sto facendo di tutto per scoraggiare le interviste. Non è che abbia qualcosa in contrario, ma non penso di avere niente di interessante da dire. E poi sono più curioso delle opinioni altrui. Alla fine, senza gli altri, senza le idee degli altri, senza i racconti, non esisti, e non esiste neanche il tuo lavoro. Quindi bisogna ascoltare agli altri, non se stessi.
AB: Parliamo del tuo lavoro, delle tue sculture.
MC: In verità parlare di sculture mi suona strano. Non è una questione di mezzi ma di immagini. Io non uso mai le mie mani per creare le opere, ma tengo soltanto l’orecchio incollato al telefono. Ascolto il brusio delle immagini, più che altro, che è sempre più forte dell’eco nella cornetta. Non sono le sculture ma le immagini che mi interessano. Figurati: mai preso uno scalpello in mano, mai avuto uno studio.
AB: E cosa sono le immagini allora?
MC: Sono una variazione statistica del reale. Mi interessa la realtà, quello che vediamo tutti i giorni: un pensiero, qualcosa che hai visto in televisione o hai letto su un giornale, che ti rimane impresso mentre girovaghi per Internet. Le immagini hanno la forza di riassumere il presente e magari di trasformarlo in una anticipazione del futuro. Forse le mie opere sono solo una lente di ingrandimento che ti fa vedere i dettagli più nascosti della realtà.
AB: Però è un dato di fatto che le tue immagini sono sempre tridimensionali, occupano uno spazio. Perché?
MC: Ogni volta che inizio un nuovo lavoro parto da uno spazio, da un luogo preciso dove andrà a finire. Non posso lavorare nel vuoto, va a finire che mi perdo. È un po’ di tempo che lavoro così e mi incuriosisce come per ogni spazio ci sia un’unica soluzione praticabile, un’unica risposta che funzioni.
AB: Che intendi per “un’unica risposta”?
MC: Sono sempre a caccia di nuove sfide, nuove possibilità, e nuovi luoghi. A me non mi interessa solo il pubblico dell’arte ma anche chi si trova a passare per caso da qualche parte. L’arte non può essere uno spazio chiuso in se stesso, deve essere piuttosto un campo magnetico che attira le energie degli artisti nello spazio e magari nelle città e che le fa circolare. È quel magnetismo che cerco, è come una reazione chimica. Non è che gli atomi si leghino casualmente uno con l’altro, per questo c’è una sola risposta, un’unica reazione. Un po’ di chimica l’ho anche studiata e mi sembra che sia una questione di più e di meno, o qualcosa del genere. E poi ci vuole fortuna, anche. Molta fortuna.
AB: Già, la storia dell’elettrotecnico e dei mille lavori che hai fatto prima di cominciare a fare l’artista.
MC: Si, ho fatto molti lavori prima di finire a fare l’artista. Cercavo un modo per aver un po’ di libertà, sfuggire dall’autorità del tempo. Non penso di essere riuscito a fare qualcosa di diverso da quello che fanno tutti gli altri. Mi sono solo inventato un sistema che potesse lasciarmi un poco di liberta per dire cio’ che penso o cio’ che pensano gli altri. È questo che mi interessa davvero dell’arte: la possibilità di inventare immagini che scatenino reazioni, che diventino uno specchio del nostro presente. E poi non c’è molta differenza tra un antenna televisiva e un artista: sono entrambi meccanismi di diffusione, amplificatori di segnali. Io certo più che artista mi sento antennista.
AB: Parli di reazioni del pubblico. Quindi lo scandalo che provocano i tuoi lavori non è casuale, non è solo un accidente.
MC: Un’accidente prima o poi verrà a me, con tutte queste domande. Non ho mai deciso a tavolino di fare scandalo o di provocare, come ti dicevo prima, le immagini alle volte riescono a anticipare il futuro e forse è questo che scandalizza il pubblico, non riconoscersi ancora in quello che vedono. A me delle provocazioni non mi interessa poi granché. Delle reazioni della gente e del pubblico sì, però: un’opera d’arte non è completa senza i commenti, le parole, le idee di chi ci capita davanti. In realtà sono loro che fanno le opere. Io non faccio nulla: senza punti di vista e interpretazioni diverse l’arte non esiste. Forse non esistiamo neanche io e te.
AB: E il Papa? Il Papa colpito dal meteorite non era una provocazione specificamente anticattolica?
MC: Non credo che fosse una provocazione. Anticattolica poi. Proprio da me che sono cresciuto tra santini e chierichetti cantando nel coro della chiesa. Il Papa è più che altro un modo per ricordarsi che il potere, qualunque potere, ha la data di scadenza, come il latte. Il Papa all’inizio doveva essere qualcos’altro.
AB: Come doveva essere?
MC: Il Papa all’inizio doveva essere in piedi, con il crocefisso in mano. Quando gli sono arrivato davanti era fatto e finito e mi è sembrato che gli mancasse qualcosa, che il lavoro non fosse completo. Quello che serviva era qualcosa di molto semplice, in verità, come per tutte le cose. Mancava il dramma e forse anche la capacità di trasmettere la sensazione di essere di fronte a qualcosa di straordinario e di potente, non c’era il senso di fallimento e di sconfitta. La religione non c’entra poi granché con quel lavoro: a me interessano le persone nei loro ruoli, non tanto i personaggi storici.
AB: Un’opera laica, insomma. E Hitler inginocchiato in preghiera? Che cos’è quella, una trovata da pubblicitario?
MC: Mi piace la pubblicità. Belle immagini. Tante ragazze. Ma l’Hitler non credo che fosse una trovata pubblicitaria. Non vendeva nulla. Anzi: è un’immagine un po’ ruvida della caduta delle maschere e dei ruoli. Avevo pensato all’inizio che dovesse essere nudo, come il re della favola. Ma poi come sempre è più interessante mischiare le carte e cercare di pescare quella giusta.
AB: Pescare quella giusta. Il caso ha un ruolo o no nel tuo lavoro?
MC: La casualità c’entra sempre moltissimo. Prendi per esempio il lavoro di Milano in Piazza XXIV Maggio. Ero stato invitato a pensare un lavoro per Milano dalla Fondazione Trussardi e ho scelto di lavorare in quella piazza e su quell’albero, che somiglia a quelli delle fiabe, imponente come un grattacielo al centro di un circolo rumoroso e irrefrenabile di macchine. Se devo essere sincero ho scelto quella piazza per il chiosco del pesce fritto all’angolo. Il lavoro nella mia testa era come una piccola leggenda urbana con un finale tragico, forse un modo per riflettere il presente, con le sue tensioni e i suoi incubi. Guardare in faccia la paura magari è un modo per allontanarla. Comunque: poche ore dopo la scultura non esisteva più nella piazza ma soltanto sulle pagine dei giornali o in televisione. Ecco cosa c’entra il caso.
AB: Senti, non vorrei essere brutale ma anche in quel caso qualcuno diceva che sei un truffatore bello e buono. Hai organizzato finte Biennali ai Caraibi, hai attaccato con del nastro adesivo un gallerista alla parete della sua galleria, hai copiato nel minimo dettaglio la mostra di un altro artista, hai venduto il tuo spazio nella Biennale di Venezia ad una agenzia pubblicitaria che lanciava una nuova collezione di profumi, hai denunciato alla polizia il furto di una tua opera invisibile, hai fatto la Z di Zorro su un quadro imitando i tagli di Fontana, hai fatto sbucare un albero di 300 anni al centro di una Audi nuova fiammante. Chi è Maurizio Cattelan? Un giullare di corte, un bugiardo, un imbroglione?
MC: Un giullare? Cerco di dire cose serie da una vita ma nessuno mi crede mai. Un imbroglione? Mai rubato a nessuno, mai commesso spergiuro, mai atti impuri. Un bugiardo? Non credo mai in un’unica verità, ma solo a una combinazione infinita di possibilità. Sono una matassa di controsensi, come tutti.
AB: Il tuo lavoro, se lo analizziamo nell’arco degli ultimi quindici anni, ha qualcosa a che fare con la velocità, quasi con l’idea di fuga. Riesci a cambiare velocemente discorso e a mantenere una tensione costante nelle tue invenzioni. Di che cosa si tratta?
MC: In ogni edificio mi interessa scoprire le scale di servizio e le porte secondarie, le uscite sul retro e i passaggi segreti. Alla volte affrontare la realtà faccia a faccia è solo un modo per sentirsi più forti, e come sempre è solo un’altra maschera che indossi per non farti vedere.
AB: Cambiamo discorso. Parliamo di te. I tuoi amici, anche quelli che ti frequentano da anni, sostengono che c’è una zona di te impenetrabile e inafferrabile, c’è una zona di Cattelan chiusa a tutti. È vero?
MC: Ci sono degli spazi, più che delle zone, che mi piacere tenere nascosti, lasciarli all’immaginazione. Casa mia per esempio. Anche se poi in realtà non c’è nulla da immaginare e nulla da vedere. Sono quattro pareti e la moquette, niente mobili e nessun quadro alle pareti. È come con la marmellata, in fondo: quando sei piccolo e sai che il barattolo è nel mobile alto della cucina, non lo puoi vedere e non sai di che frutta sia, te la ricordi sempre più buona di come sia in realtà. A te piace la marmellata?
AB: Si, quella all’albicocca. Ma sono io che intervisto te. Sei tu il personaggio pubblico, no?
MC: Non sono un personaggio pubblico, ne una persona famosa. Il fatto che ti conoscano gli artisti, i curatori, la gente del mondo dell’arte non fa di te una persona famosa. Il mondo la fuori è molto più grande di come lo immagini. Io poi ho sempre solo lavorato, mai salito sul Colosseo per far venire le televisioni con l’elicottero.
AB: Che cos’è per Maurizio Cattelan l’arte contemporanea, a parte i viaggi, il successo, il denaro?
MC: Il denaro più che accumularlo lo spendo. Per me i soldi sono un meccanismo di trasmissione, qualcosa da far circolare piuttosto che mettere dentro il materasso. Poi il mio è ad acqua, si ammuffirebbero subito. I viaggi fanno parte del lavoro, sono un modo per cercare e accumulare immagini e idee che vengono da altre persone. Cosa sia l’arte non lo so: sono un elettrotecnico delle serali che alla fine, copiando dall’ultimo banco il pezzo di carta è riuscito anche a prenderlo.
AB: Leggerezza, velocità, ironia dissacrante. Queste parole ricorrono nel tuo vocabolario. È questa l’eredità di Maurizio Cattelan?
MC: Quelle parole ricorrono nel vocabolario di chi ha voluto scrivere su di me, non tanto nel mio. E se penso all’eredità l’unica cosa che mi viene in mente è il quiz televisivo. Mi pare che si vincano un sacco di soldi, e ovviamente non mi hanno mai invitato.
AB: A proposito del tuo itinerario. Fare l’artista senza formazione artistica non ti bastava? Perché hai deciso di fondare due riviste Charley e Permanent Food, di fare il collezionista, di intervistare per Flash Art vari artisti, e di fare in fine il curatore. Sei uno dei curatori della Biennale di Berlino no?
MC: A me interessa la possibilità di cambiare maschera e ruolo, per vedere cosa succede. Insieme a Massimiliano Gioni e ad Ali Subotnick stiamo preparando la prossima edizione della Biennale di Berlino che inaugura a Marzo 2006, per cui abbiamo ancora tempo per trovare la direzione giusta. Anche se poi non è tanto una questione di dove si vada ma piuttosto di quale percorso si faccia. È che faccio le cose a istinto, non penso mai a dove possano portarti, anche se poi a volte mi servono due anni per prendere una decisione semplicissima. Come fare la Wrong Gallery, oppure Permanent o Charley. Abbiamo iniziato per fare un esperimento, per aprire uno spazio, quasi per gioco. E alla fine è diventata una cosa seria. E tantissimo lavoro.
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An Interview with Maurizio Cattelan
Maurizio Cattelan was born in Padua in 1960. He did not attend art school but taught himself. Cattelan worked as a gardener, mortuary attendant, and designer, among other things, before turning to making art. In the ’80s, he started his career in Forlì (Italy) where he knew some local artists. His works often combine sculpture and performance and reveal a refined sense of the paradoxes of transgression. He identifies the vulnerable aspects of the art system, and of reality in general, in order to highlight them, without ever falling into the naive trap of thinking he can subvert a system of which he is part. Cattelan likes to play the role of the loser, even if he definitely seems a winner: he is one of the best-known Italian artists to have emerged internationally in the 1990s, and his reputation continues to grow. He has had solo exhibitions in the world’s most distinguished museums, including the Museum of Modern Art, New York, and the Museum of Contemporary Art, Los Angeles. Cattelan has participated in five editions of the Venice Biennale, as well as in many other collective exhibitions such as the Whitney Biennial, Manifesta, and “Apocalypse” at the Royal Academy in London.
Andrea Bellini: Maurizio Cattelan, to interview you is not the easiest thing in the world.
Maurizio Cattelan: Well then, don’t.
AB: I’m just saying that it’s not easy to interview you because on various occasions you’ve declared that you have no ideas and no theories. So, I’m wondering why someone should want to interview you.
MC: Actually I do everything possible to discourage interviews. It’s not that I am opposed to them, it’s just that I don’t think I have anything interesting to say. I’m more curious about other people’s opinions. In the end, without others, without their ideas, without their stories, you don’t really exist and neither does your work. That’s why one should listen to others rather than to oneself.
AB: Let’s talk about your work, your sculptures.
MC: It feels strange to talk about sculptures. It’s not so much a question of means as of images. I never even use my hands to create my work, just my ear glued to the phone. More than anything else, I listen to the murmur of images, and that’s always louder than the echo in the phone. I’m more interested in images than in sculptures. Imagine: I never took a chisel in my hands, never even had a studio.
AB: So what are images for you?
MC: They are a statistical variation of the real. I’m interested in reality, the one we see every day: a thought, something you saw on TV or read in the papers, something that left an impression while surfing on the Web. Images have the strength to summarize the present and perhaps to transform it into an anticipation of the future. Perhaps my work is just
a magnifying lens that allows you to see the hidden details of reality.
AB: But it’s also a fact that your images are always three dimensional, that they occupy a physical space. Why?
MC: Every time I start a new piece I consider a space, a precise location where it will be located. I can’t work in emptiness, I would end up getting lost. I’ve been working this way for a while, and it intrigues me how there is only one solution for each space, one single answer that works.
AB: What do you mean by one answer? Help me understand.
MC: I’m always chasing new challenges, new possibilities, and new locations. I’m not only interested in the art public, but also in those people who just happen casually to pass by. Art should not be a space shut in on itself, but rather a magnetic field that attracts the energies of artists into space, and possibly into the cities in which they circulate. I’m searching for that magnetism, like a chemical reaction. Atoms don’t join casually with each other, that’s why there is only one answer, one single reaction. I studied a little chemistry, and I believe that it is a matter of positives and negatives, or something like that. And then you also need luck, lots of luck.
AB: Right, I remember: the story of the electro-technician.
MC: I did many things before becoming an artist. I was looking for a way to gain more freedom, to escape the authority of time. I don’t think that I succeeded in doing anything different from anyone else. I simply invented a system that can give me the freedom to say what I think or what other people think. That’s what really interests me about art: the possibility of inventing images that trigger reactions, that become a mirror of our time. There’s not a big difference between a TV antenna and an artist: both are mechanisms of circulation, signal-amplifiers. More than an artist, I feel like an antenna installer.
AB: You talk about reactions. Therefore the scandal that your works provoke is only an accident.
MC: I never purposely decide to create a scandal, to provoke. As I was telling you before, images sometimes manage to anticipate the future, and maybe that’s what scandalizes the public—not to recognize themselves in what they see. I’m not really interested in provocation. I am interested in people’s reactions, though: a work of art is not complete without the comments, the words, and ideas of whoever happens to be in front of it. They are the ones who create the work. I don’t do anything: art doesn’t exist without points of view and different interpretations. Maybe even you and I don’t exist.
AB: And what about the pope? Wasn’t the pope, hit by a meteorite, a specifically Catholic provocation?\
MC: I don’t think it was a provocation. And certainly not anti-Catholic, coming from me, who grew up singing in the church choir between saints and altar boys. The pope is more a way of reminding us that power, whatever power, has an expiration date, just like milk. In the beginning, the pope was supposed to be something else.
AB: How was it supposed to be?
MC: In the beginning, he was supposed to be standing, with the crucifix in his hands. When it was finished and I stood in front of it, I felt as if something was missing, that the piece was not complete. What it needed was very simple: it lacked drama and the capacity to convey the feeling of being in front of something extraordinary and powerful. It didn’t have the sense of failure and defeat. That piece doesn’t have much to do with religion: I’m more interested in the actual people playing their roles than in their historical personalities.
AB: A secular piece then, how curious. And what about Hitler kneeling in prayer? Was that a publicity stunt?
MC: I like publicity: beautiful images, lots of girls. But I don’t think that Hitler was a publicity stunt. He wasn’t trying to sell anything. On the contrary, it was a rough image about peeling off masks and roles. At the beginning I thought he should be naked, like the emperor in the fairytale. But then I realized that it’s always more interesting to mix the cards and pick the right one.
AB: So what role does chance play? To me, it doesn’t seem that you leave anything to chance in what you do.
MC: Chance is always part of it. Take, for example, the work I did for Milan, in Piazza XXIV Maggio. The Trussardi Foundation invited me to do a piece, for Milan, and I chose to work in that piazza and on that tree, which looks just like a tree out of a fairytale, imposing like a skyscraper in the midst of loud and constant car traffic. To be honest, I also chose that piazza because of the fried fish kiosk on the corner. The idea in my mind was to do a piece that would be like a small urban legend with a tragic ending. Perhaps a way to reflect on the present, with its tensions and nightmares. In any event, a few hours later, the sculpture no longer existed in the piazza; it only remained in newspapers and on TV news. That’s what “chance” has to do with it.
AB: Listen, I don’t mean to be blunt, but even in that case some people said you were a real con-man. You organized fake biennials in the Caribbean, you attached a dealer to the walls of his gallery with Scotch-tape, you copied the show of another artist in every detail, you sold your space at the Venice Biennial to a publicity agency that was launching a new perfume, you denounced the robbery of an invisible work of art of yours to the police, you slashed Zorro’s “Z” into a painting, imitating Fontana’s cuts, you had a 300-year-old tree grow right through a flashy new Audi car. Who is Maurizio Cattelan, a court jester, a liar, or a con-man?
MC: A jester? I’ve been trying to say serious things for a lifetime, but nobody ever believes me. A con-man? I never robbed anyone, never committed perjury, never committed immoral acts. A liar? I don’t believe in a single truth, only in an infinite combination of possibilities. I’m a bundle of contradictions, just like everyone else.
AB: If one analyzes your work from the last 15 years, it seems to be related to speed, to the idea of escape. You’re able to change subjects quickly and to maintain a tension within your inventions. What is it about?
MC: I am always interested in discovering the service entrance and the back stair in each building, the back exits and secret passages. To confront reality face-to-face is sometimes just a way of showing strength and, as always, just another mask one wears in order to hide.
AB: Let’s change subject and talk about you. Your friends, even the ones who’ve known you for years, say that there is a part of you that is impenetrable and ungraspable, that there’s a part of Maurizio Cattelan hidden from everyone. Is that true?
MC: Rather than parts, there are some spaces that I like to keep hidden, leaving them to the imagination. For example, my home—even though there is nothing to imagine or see. It’s just four bare walls, a carpet, no furniture, and no paintings. It’s like with jam: when you are small and you know that there is a jar on the top shelf of the kitchen cabinet, but you can’t see it and you don’t know what flavor it is, so you always imagine it to be better than what it is in reality. Do you like jam?
AB: Yes, apricot jam. But I’m the one doing the interview here, you are the public figure.
MC: I’m not a public figure, I’m not a celebrity. The fact that artists, curators, and people from the art world know me doesn’t make me a celebrity. The world out there is much larger than what you imagine. And besides, I have always done my job, I never went to the top of the Colosseum and had TV stations come with helicopters.
AB: What is contemporary art for you, apart from traveling, success, and money?
MC: I spend money, rather then accumulating it. For me, money is a transmission mechanism, something that should circulate rather than be stored in a mattress. And anyway mine is a water mattress, so it would molder immediately. Traveling is part of the job; it’s a way of trying to accumulate images and ideas that other people have had. I don’t know what art is: I’m a night-school electro-technician who, after cheating in the back row, managed to pass.
AB: Lightness, speed, desecrating irony. These words are recurrent in your vocabulary. Is this your legacy?
MC: Those words recur in the vocabulary of those who write about me, not so much in mine. And if I think of “legacy,” the only thing that comes to mind is the TV quiz show. I believe one can win a lot of money in it, but obviously they never invited me to participate.
AB: Apropos your itinerary: Wasn’t it enough to simply be an artist without an artistic formation? Why did you also decide to publish two magazines, Charley and Permanent Food, become a collector, interview various artists for Flash Art and now be a curator? Aren’t you one of the curators of the Berlin Biennial?
MC: I’m interested in the possibility of changing masks and roles and seeing what happens. I’m preparing the next edition of the Berlin Biennial together with Massimiliano Gioni and Ali Subotnick. It will open in March 2006, so we still have lots of time to find the right direction. Although in the end it’s not so much a question of where one goes, as much as what path one takes. I do things out of instinct; I never think of where they might take me, even though sometimes it takes me two years to make the most simple decision. Like doing the Wrong Gallery or Permanent and Charley. We started as an experiment, to open a space almost like a game, and in the end it became a serious thing, and lots of work.
Andrea Bellini is U.S. editor of Flash Art.